Tenutosi di recente a Milano, presso il Palazzo della Regione Lombardia, il convegno “Vulvodinia, il dolore invisibile: dalla sofferenza alla soluzione. Sfide e innovazioni” ha portato l’attenzione su una patologia che, come afferma chi ne soffre e chi se ne fa carico da un punto di vista professionale, viene ancora oggi troppo spesso sottovalutata e fraintesa.
Da qui la necessità, messa in luce con chiarezza da Filippo Murina, responsabile del Servizio di Patologia del Tratto Genitale Inferiore Ospedale Buzzi e Direttore Scientifico Associazione Italiana Vulvodinia, di aumentare la consapevolezza su questa malattia non solo tra le donne ma anche tra gli operatori sanitari e le istituzioni.
Rompere il silenzio
Si tratta in sostanza di fare rumore attorno a una patologia silenziosa, nonché invisibile, perché il mondo della salute, così come quello della politica, si impegnino a farla emergere in tutto il suo impatto invalidante in modo da offrire a un numero sempre più alto di donne la possibilità di affrontarla. E di risolverla, ha sottolineato il professor Murina nella sua relazione, perché dalla vulvodinia si può guarire: il percorso può non essere semplice, può richiedere tempo ma, se affrontato in modo corretto, può portare a riprendere la vita nelle proprie mani.
Perché la vulvodinia è una condizione dolorosa e debilitante che condiziona in negativo l’intera esistenza delle donne che ne soffrono, con un impatto forte, a volte devastante, spesso per altro affrontato in totale solitudine.
Le testimonianze di chi ne soffre
Lo sanno bene l’influencer Giulia Soleri e Silvia Carabelli, presidente Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo, che hanno portato la loro testimonianza al congresso, sottolineando come dall’adolescenza alla vita adulta, convivere con un dolore costante, a volte così intenso da provocare uno svenimento, voglia dire essere costrette a continue, dolorose rinunce.
Proseguire negli studi può essere impossibile così come lavorare, fare sport, viaggiare con una compromissione seria della vita di sociale e di quella relazionale dal momento che avere rapporti sessuali può essere così doloroso, da impedire la penetrazione con risvolti negativi sulla vita di coppia. Anche il desiderio di un figlio può non trovare soddisfazione dal momento che la capacità riproduttiva può essere, temporaneamente o permanentemente, compromessa dalla vulvodinia, in modo parziale o totale.
Murina: mancano ancora figure competenti
Ma nonostante interessi circa il 18% delle donne, a qualunque età partendo dall’infanzia per arrivare all’età matura, la vulvodinia continua ad essere ignorata dal dibattito pubblico e dalle politiche sanitarie. Le donne che ne soffrono si trovano spesso isolate, non comprese da chi sta loro vicino, neppure dal partner, e soprattutto senza una diagnosi chiara e tempestiva, senza accesso a cure adeguate, talvolta persino senza vedere riconosciuta la gravità della loro situazione e della loro condizione dolorosa.
Le testimonianze parlano di anni e anni, e di ingenti cifre, spesi a vagare tra uno specialista e l’altro alla ricerca di una diagnosi che può arrivare in alcuni casi anche dopo un decennio di sofferenze. E questo contrasta nettamente con il fatto, come spiegato dal professor Murina, che diagnosticare la vulvodinia è molto semplice: basta un bastoncino cotonato premuto su punti precisi della vulva. Questo ovviamente non vuol dire che la patologia non presenti un elevato quadro di complessità ma che ancora oggi mancano figure competenti nella sua gestione e che partire da una diagnosi tempestiva è il primo passo per un cammino di successo nella risoluzione della malattia.
L’impegno della politica
Il convegno ha focalizzato l’attenzione anche su quanto sia importante investire nella ricerca che può aprire sempre nuove prospettive di indagine e di cura. Attraverso la voce di Paola Bulbarelli, coordinatrice gruppo di lavoro “Medicina di genere” – Commissione Sanità del Consiglio regionale della Lombardia, è emerso con chiarezza quanto sia basilare l’impegno della politica nell’estendere al maggior numero possibile di donne la possibilità di accedere a strutture che siano in grado di affrontare la patologia a 360°.
Dalle associazioni è stata sottolineata infine l’urgenza da parte del legislatore del riconoscimento della vulvodinia quale malattia invalidante. Solo inserita nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) la patologia può avere infatti un impatto economico meno devastante rispetto a quello che ha attualmente.
Inoltre, riconoscere la vulvodinia, al pari della neuropatia del pudendo e dell’endometriosi, come una patologia invalidante può essere un passo fondamentale per inserirla nei percorsi formativi delle figure sanitarie e per agevolare l’iter di riconoscimento di invalidità per le donne che non riescono più a lavorare. Senza trascurare il fatto che l’attenzione rivolta dal mondo politico alla vulvodinia può contribuire a rompere i tabù che ancora spingono le donne a nascondere la malattia e il dolore e i professionisti a non riconoscerla.