Uno dei protocolli per la cura della vulvodinia in fase di studio e quindi ancora da validare, prende in considerazione l’uso della tossina botulinica. Prima di capire meglio il razionale di questa terapia, una premessa è d’obbligo. Una patologia complessa come la vulvodinia, originata da cause diverse e spesso difficili da individuare, necessita sempre di essere affrontata con la consulenza di un ginecologo esperto nella malattia e di altri professionisti.
In particolare i campi di interesse spaziano dalla psicologia alla fisioterapia, dall’ostetricia alla sessuologia fino alla ginecologia estetica e funzionale rappresentata in Italia dall’AIGEF, Associazione Italiana di Ginecologia Estetica e Funzionale. Il trattamento della patologia si avvale quindi di un corollario ampio di protocolli terapeutici, alcuni ormai consolidati dalla pratica clinica, altri in fase di studio e quindi non considerati ancora standard nel trattamento della vulvodinia. Si tratta in ogni caso di prospettive terapeutiche che suscitano interesse nella comunità scientifica per le possibili future applicazioni.
Una revisione della letteratura
La tossina botulinica di tipo A, che i più conoscono per il suo impiego estetico nel ringiovanimento del volto, trova ampio impiego in diversi campi medici, nella neurologia, nell’oculistica e nella fisiatria, in particolare in tutte quelle situazioni in cui inibire la contrazione muscolare possa essere utile a fini terapeutici.
Uno studio pubblicato sull’ European Journal of Obstetrics & Gynecology and Reproductive Biology condotto dal Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia dell’Università di Padova, dal Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e dall’AIGEF ha presentato le conclusioni di una revisione della letteratura sull’utilizzo del botulino a livello vulvo-vaginale, mirando a verificarne efficacia e sicurezza. Opportunamente diluito e iniettato in punti precisi, è stato impiegato per la sua capacità di ridurre la sensibilità delle fini terminazioni nervose responsabili della sensazione di dolore.
Secondo i dati raccolti, l’iniezione di tossina botulinica si è rivelata efficace nel migliorare la dispareunia vulvare e vaginale, il vaginismo e il dolore pelvico cronico facendo registrare anche in alcuni casi effetti positivi sulla qualità della vita delle pazienti. Dalla revisione non sono emersi effetti collaterali irreversibili ma solo effetti collaterali temporanei come stati di incontinenza urinaria e fecale, costipazione e dolore rettale.
Tossina botulinica, un protocollo ancora da validare
Come segnalato dagli stessi autori dello studio, l’impiego del botulino nella vulvodinia, così come nel vaginismo e nel dolore pelvico, rimane comune allo stato attuale un protocollo sperimentale che necessita di essere validato e standardizzato così da ricavarne linee guida pratiche per l’utilizzo sulle pazienti.
Il ricorso al botulino, infatti, può essere approvato solo dopo un’attenta diagnosi clinica della paziente; il suo impiego, inoltre, deve essere gestito esclusivamente da un team interdisciplinare costituito non solo da medici esperti nell’utilizzo della tossina botulinica ma anche da ginecologi, urologi e psico-sessuologi.
Una cura palliativa, non risolutiva
Va ribadito inoltre il fatto che la procedura deve sempre essere eseguita da un medico particolarmente esperto. La dose di tossina botulinica da iniettare deve essere molto bassa e opportunamente diluita e le iniezioni, eseguite con aghi sottilissimi ma comunque pur sempre dolorose, necessitano di essere praticate in punti precisi, il che comporta una conoscenza anatomica approfondita dell’area.
Essendo infatti la zona da trattare molto vicina a due sfinteri importanti che regolano la continenza anale e vescicale, un errore nel dosaggio e nei punti di iniezione potrebbe provocare, come riportato dalla letteratura, incontinenza urinaria e fecale, temporanea ma comunque molto fastidiosa.
La tossina botulinica, infine, i cui effetti durano attorno ai sei mesi, non deve mai essere considerato alla stregua di una terapia risolutiva del dolore, ma una cura palliativa che può alleviare momentaneamente una condizione di sofferenza in attesa di un piano terapeutico, adeguato e definitivo della patologia.