La diagnosi di vulvodinia

Secondo una survey del 2020 lanciata sui social sul tema vulvodinia, che ha coinvolto circa 500 donne, il 94% delle intervistate ha dichiarato di aver avuto la sensazione di non essere creduta, non solo da amici e parenti, ma anche dagli specialisti a cui si è rivolta, riguardo all’intensità e all’interferenza del proprio dolore nella vita quotidiana.

Ancora oggi, anche a causa della mancanza di una formazione specifica di molti specialisti su questa patologia, il tempo medio necessario per arrivare a una diagnosi a è 4,5 anni. Un terzo delle donne consulta più di cinque specialisti prima di arrivare a dare un nome alla propria sofferenza. Senza contare i costi in termini di visite, esami, farmaci inutili o trattamenti evitabili, giornate di scuola o lavoro perse e soprattutto il prezzo psicologico di una malattia che resta senza nome per anni.

Vulvodinia: una diagnosi di esclusione

«Una donna che si reca dal medico riportando un forte dolore vulvare persistente da almeno tre mesi, che impedisce le più semplici attività (come sedersi) e non presenta altri sintomi, come prurito, tagli o lesioni, è probabilmente affetta da vulvodinia. Tuttavia, questa patologia è spesso motivo di difficoltà diagnostiche perché non si accompagna a segni clinici visibili», spiega Barbara Gardella, professore associato di Ostetricia e ginecologia dell’Università di Pavia e responsabile dell’ambulatorio di Patologia vulvare della Clinica Ostetrica Ginecologica della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.

«La donna accusa un forte dolore vulvare e apparentemente non ha altri segni clinici evidenti: i genitali esterni appaiono nella norma, senza alcuna alterazione visibile. Non sono presenti segni di infiammazione o secrezioni. In linea generale, i parametri che possono indirizzare il ginecologo a una diagnosi di vulvodinia sono : la presenza del dolore vulvare da almeno 3-6 mesi, l’assenza di prurito e il riscontro di organi genitali sani, privi di alterazioni o lesioni. È quindi al momento una diagnosi di esclusione».

L’anamnesi

Il medico innanzitutto raccoglie informazioni sullo stile di vita della donna, sulle abitudini igieniche e sulla storia ginecologica e ostetrica. «È importante comprenderne anche lo stato psicologico e indagare gli aspetti relazionali e sessuali, rassicurando la paziente che una causa di questa sofferenza c’è sempre, anche quando non si vede», spiega l’esperta.

La visita ginecologica

La donna viene poi sottoposta a una visita, che consiste in un’ispezione a occhio nudo della vulva, per valutare la morfologia delle grandi e piccole labbra, la presenza di lesioni rosse, bianche o scure di cute e mucosa. Questa osservazione serve per escludere che il dolore vulvare sia causato da una causa specifica identificabile come una dermatosi, un’infezione o un tumore e confermare la diagnosi di vulvodinia, in caso di assenza di lesioni visibili.

La misurazione del dolore

All’ispezione segue il test pressorio (o swab test) che serve a valutare la presenza e la distribuzione del dolore nella vulva. Il ginecologo esercita una lieve pressione con un bastoncino cotonato inumidito su punti precisi della vulva (in particolare, le grandi labbra, il solco interlabiale, il perineo, il prepuzio, la linea di Hart, cioè una linea di demarcazione che separa le piccole labbra dal vestibolo, il clitoride e il vestibolo vulvare): se la donna riferisce dolore, ci si trova di fronte a una vulvodinia provocata. Per misurare il dolore viene usato uno strumento chiamato Scala Visuale Analogica (VAS), una scala di valori da 0 a 10 che serve per attribuire un “punteggio” alla sensazione dolorifica. Esiste anche la vulvodinia spontanea, quando la donna avverte costantemente dolore o fastidio, anche in assenza di stimolazione.

In base alla localizzazione del dolore (mappatura del dolore), si distingue la vulvodinia generalizzata, se il disturbo interessa l’area vulvare, il perineo e la zona perianale; e la vulvodinia localizzata, quando il dolore si avverte solo in precise zone, come vestibolo (vestibulodinia) e/o clitoride (clitoridodinia).

Possono esistere anche forme miste, in cui si accompagnano più sintomi.

La vulvodinia e il problema delle false diagnosi

Da quando la vulvodinia è stata riconosciuta come problema di una certa rilevanza ginecologica, si è creato anche il problema delle false diagnosi. Da una parte, molte donne fanno auto-diagnosi consultando Internet e “si convincono” di soffrirne. D’altra parte, molti medici, sull’onda delle campagne di informazione, la diagnosticano con troppa facilità.

Questo può creare un pericoloso circolo vizioso per cui una donna che in realtà non soffre di questa patologia diventa vittima di una suggestione psicologica la quale, a sua volta, induce un’alterazione della sensibilità vulvare. Per questo è fondamentale che sia le donne che i medici siano adeguatamente informati e documentati sulle caratteristiche e i sintomi con cui si manifesta questa malattia.

«La diagnosi di una sindrome così complessa e strettamente impattante l’aspetto psicologico richiede una competenza multidisciplinare», conclude la dottoressa Gardella. «Per tale motivo, in questi anni di ricerca, gli specialisti di vari settori si sono uniti nello studio e trattamento multidisciplinare facendo nascere la vulvologia, una disciplina che raccoglie e integra conoscenze di vario tipo: anatomofisiologico, dermatologico, neurologico, psicologico, infettivologico, oncologico ecc…».

La diagnosi di vulvodinia