C’è sempre molta curiosità e mistero intorno al tema dell’ipnosi. L’immaginazione corre a pendoli, formule magiche e rivelazioni di segreti. L’idea attrae, ma spaventa anche. In realtà l’ipnosi terapeutica è una pratica sicurissima, dalle solide basi scientifiche, che viene oggi ampiamente utilizzata in vari ambiti della medicina e della psicoterapia, dal trattamento di disturbi d’ansia e attacchi di panico, fino alle varie dipendenze. È usata con successo nella terapia non farmacologica del dolore cronico, anche di tipo ginecologico, come nel caso della vulvodinia.
Ma quando è utile ricorrere a un ipnotista e che benefici si possono ricavare da questa pratica? Facciamo chiarezza con il dottor Riccardo Pignatti, psicoterapeuta e neuropsicologo a Milano e online, che la utilizza da oltre 20 anni.
1. Dottore, cos’è l’ipnosi?
Nel tempo sono state date tantissime definizioni. A me piace definirla come uno stato privilegiato di attenzione che portiamo verso di noi. Siamo spesso distratti verso noi stessi, oppure crediamo ai racconti che gli altri fanno di noi, identificandoci con essi. Con l’ipnosi terapeutica, si impara a dare un’attenzione diversa a se stessi con l’aiuto delle parole del terapeuta, che invita il paziente a scoprire nuovi aspetti di sé o a parlarsi in modo diverso. Scoprire le proprie risorse interiori, con l’aiuto delle metafore, aiuta a sviluppare una nuova relazione con se stessi e col mondo esterno.
2. Perché l’ipnosi spesso fa ancora paura?
Perché comporta un lieve distacco dalla realtà circostante, per immergersi in quella interiore.
Non tutti sanno però che la trance è uno stato che sperimentiamo ogni giorno: è quella condizione naturale di semi-veglia che proviamo nella fase di addormentamento o di risveglio, oppure quando siamo soprappensiero e ci distacchiamo mentalmente da quello che stiamo facendo, per esempio non sentiamo se qualcuno ci sta chiamando perché molto concentrati su una mansione. L’ipnosi fa un uso guidato di questo meccanismo spontaneo, per portare un messaggio terapeutico. È una metodica senza controindicazioni, se non per gravi problemi psichiatrici come il Disturbo paranoide o la presenza di stati deliranti floridi.
3. Quale utilizzo può avere l’ipnosi nel trattamento della vulvodinia?
Dobbiamo premettere che la cura della vulvodinia è sempre un lavoro di équipe, in cui anche lo psicoterapeuta ipnotista può giocare un ruolo. Ormai sappiamo che, dal punto di vista psicologico, la vulvodinia comporta uno strascico pesante. La mancanza di un riscontro oggettivo, di un dato medico che confermi la validità di quel dolore descritto in modo così minuzioso e puntuale dalle donne, può portare a vissuti di vergogna e paura di non essere capite o, peggio, credute. Qualche donna racconta di essersi sentita dare “della matta“. Spesso arrivano dallo psicologo dopo un iter medico straziante.
4. Cosa fa a questo punto l’ipnotista?
Il suo primo compito è l’ascolto, l’accoglienza: andrà innanzitutto a indagare come il problema della donna è stato recepito a livello medico e famigliare fino a quel momento e come i feedback ricevuti abbiano impattato a livello psicologico ed emotivo. Esiste un ventaglio molto ampio di situazioni possibili: si va dalla totale assenza di comprensione ed empatia, che non fa che aggravare la sensazione di frustrazione e tristezza, a casi di disperazione e totale immedesimazione nel dolore della persona cara, che però è altrettanto controproducente.
5. Su quali aspetti psicologici l’ipnosi va ad agire?
In una condizione complessa come la vulvodinia, i vissuti psicologici si presentano sia come causa che come conseguenza della malattia stessa. In molti casi, ansia, stress, depressione, la tendenza a somatizzare, intesa come propensione a canalizzare la propria sofferenza verso un organo bersaglio, sono fattori preesistenti ma latenti, che esplodono e si esacerbano in momenti critici della vita, come una separazione, un lutto, la ricerca di un figlio che non arriva o l’interruzione precoce (volontaria o non) di una gravidanza.
D’altro canto, la vulvodinia comporta altrettanti disagi nella sfera personale e relazionale, soprattutto intima e di coppia. Ne risulta alterata la qualità della vita lato relazionale, professionale, famigliare: la donna si sente svestita del suo ruolo di genere, ma anche “menomata“ in semplici azioni quotidiane per le quali è obbligata a chiedere aiuto.
6. Come viene vissuta questa sofferenza dalle donne?
Un tema importante è il significato che ciascuno dà alla sua malattia: c’è chi la vive come una colpa, chi come un segno del destino, chi come una condanna immeritata. Il rischio è quello di identificarsi con la vulvodinia, di sovrapporsi a essa, di non immaginarsi più senza, in quanto la patologia diventa una parte di sé.
Il professionista in questi casi agisce “distaccando“ l’immagine di sé da quella della malattia, che deve essere percepita come qualcosa di esterno, che accade alla persona, non di interno, cioè di qualcosa che le appartiene. Spesso si usa la metafora dello scienziato che “estrapola“ la malattia dal corpo femminile e la posiziona sotto un microscopio, come un microorganismo, in modo da poterla osservare e analizzare in modo oggettivo, distaccato.
7. L’ipnosi agisce direttamente sul dolore?
È efficace su due livelli: sintomatico, con l’obiettivo di ridurre il dolore nel momento in cui si presenta, concentrandosi su di esso in maniera diversa, ma soprattutto globale. Ci si prefigge cioè di cambiare la prospettiva con cui si guarda al dolore, esplorando altri aspetti della propria esistenza che generalmente passano in secondo piano quando la vulvodinia prende il sopravvento. In altre parole, stimola a riscoprire quello che si può fare con, o nonostante, il proprio problema, nelle varie sfere della vita: della sessualità, delle relazioni, della maternità, e così via.
8. Qual è la sua esperienza nell’ambito del dolore cronico ginecologico?
Negli anni ho seguito parecchie donne con disturbi della sfera ginecologica che, alla fine del percorso, sono riuscite ad avere una relazione diversa con il loro disturbo. Ricordo in particolare il caso di una donna sportiva sulla quarantina con una lesione del nervo pudendo. Lamentava un dolore all’inguine dopo una caduta in bicicletta. Dopo un iter lunghissimo di esami, visite e procedure mediche anche invasive, arrivò da me. Raccontava che il dolore la paralizzava e non faceva che aumentare. Nel suo percorso ha imparato a “distaccarsi“ dal suo dolore, a viverlo come un compagno, senza più l’ansia di esserne sopraffatta. Oggi il dolore compare più di rado e quando arriva, ha imparato a gestirlo in modo nuovo.
9. Quanti incontri sono necessari per cominciare a stare meglio?
In genere dopo le prime sei, otto sedute di ipnosi, della durata di un’ora ciascuna, da svolgere a cadenza settimanale, si cominciano a vedere i primi benefici. Se ciò non accade, è bene fermarsi e chiedersi se è il caso di proseguire. Forse quel percorso non è adatto alla specifica situazione di quella donna: può capitare e bisogna prenderne atto.
10. C’è qualcos’altro da sapere sull’ipnosi per la vulvodinia?
È giusto informare le donne che, in occasione dei primissimi incontri di ipnosi, qualche volta si può andare incontro a un lieve peggioramento dei sintomi, in quanto nella persona sta affiorando una nuova consapevolezza della propria condizione. È normale, succede anche quando si fa fisioterapia e all’inizio “fa male tutto“, sollecitando i muscoli dolenti. Questa eventualità non deve spaventare perché questo apparente peggioramento fa parte del percorso e avviene in un contesto protetto, quello della terapia.