Il dolore non diagnosticato diventa divoratore di vita

di Alessandra Graziottin*

 

Il dolore, fisico ed emotivo, punteggia la nostra vita. A volte in modo leggero e breve, altre in modo insidioso, lungo e inquietante. A volte la turba fin dalla nascita, altre volte compare minaccioso e imperioso, dopo decenni di luminoso benessere.

Il dolore ci accompagna per tutta la vita, più o meno discreto, nell’ombra della nostra stessa consapevolezza. Quando stiamo bene ci sentiamo felici, e a volte onnipotenti: così lo dimentichiamo, come se fosse una sfortuna da cui noi siamo misteriosamente immuni. E quando irrompe d’improvviso, per un incidente o una seria malattia, ne siamo turbati, non solo per la sua intensità, ma anche per aver infranto quella convinzione, in realtà fragilissima, di esserne immuni: «Perché proprio a me?».

Ho dedicato la mia vita professionale alla diagnosi e alla cura del dolore nelle donne, come ginecologa e oncologa. Meritano di essere condivise tre certezze, emerse dall’ascolto delle parole e dei sintomi che la donna lamenta, con la lettura accurata di quel libro suggestivo che è il nostro corpo, per chi voglia leggerlo con attenzione e rispetto, con l’approfondimento clinico rigoroso, grazie a esami mirati.

La prima certezza: il dolore è una sirena d’allarme che si accende per un danno biologico alla salute: danno causato da un’infiammazione, ossia un micro-incendio biologico che, se non viene arrestato, coinvolge un numero sempre maggiore di organi e tessuti, divorando salute e vita.

La seconda certezza: il dolore acuto è un avvertimento (“Preoccupati!”); il dolore cronico è un nemico. Il dolore banalizzato e negato, con persistenza del danno dei tessuti, 1) peggiora l’infiammazione biologica; 2) modifica le vie e i centri del dolore e diventa malattia in sé; 3) coinvolge altri organi, causando patologie complesse (comorbilità). In altri termini, il fiume del dolore, travolgente e divoratore di vita, trova nel ritardo diagnostico una causa grave perché nuovi affluenti di dolore, provenienti dagli altri organi a mano a mano interessati, ne aumentano la portata, in termini di molecole infiammatorie (“citochine”) che arrivano a inondare il cervello. Il dolore percepito peggiora, con depressione e ansia per la sua apparente incurabilità; e divora sempre più energia vitale, lasciando la donna spossata e derubata dei suoi progetti di vita e dei suoi sogni.

La terza certezza: la storia naturale di ogni patologia è come un film a due tempi. Il primo tempo si manifesta con sintomi, ma le lesioni microscopiche che causano il dolore non sono ancora visibili con gli attuali mezzi di indagine: ecco l’importanza di una storia clinica accurata (“anamnesi”), che oggi viene spesso trascurata, perdendo lo strumento principe per cogliere con efficacia i primi fotogrammi del film della malattia. L’ascolto tempestivo e rigoroso dei sintomi dovrebbe invece indurre noi medici a chiederci: quale fisiopatologia li sottende? Come la posso modificare, invece di cercare di superarla con un’escalation di analgesici?

Persiste purtroppo nella cultura contemporanea, anche medica, una dicotomia millenaria. Negli uomini ogni dolore ha causa fisica, biologica. Nelle donne ogni dolore è psicologico, “psicogeno”, o “inventato”. E resta legato alla condizione femminile, come se l’essere donna portasse con sé quel peccato originale che tutto normalizza, dal “partorirai con dolore” al mestruerai con dolore, con tutte le declinazioni dei dolori associati.

Il rendere normale quello che non lo è perpetua un errore metodologico grave: il dolore nella donna, soprattutto il dolore pelvico e mestruale, non viene indagato se non dopo anni di sintomi invalidanti, mentre la patologia sottostante continua a creare lesioni e danni poi difficili da curare, o che a un certo punto diventano addirittura irreversibili. Quando finalmente la gravità del dolore impone di “fare qualcosa”, ecco il secondo errore metodologico: saltare sulla soluzione-scorciatoia degli analgesici sempre più potenti, aggirando la ricerca e la cura delle cause profonde del dolore.

Una prova per tutte: le più autorevoli linee guida mondiali considerano la mestruazione molto dolorosa (“dismenorrea”) come un fattore di rischio elevato per l’endometriosi, malattia serissima sottostante. L’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) raccomanda di non usare gli oppiacei nella dismenorrea: vuol dire che troppi ginecologi d’oltreoceano lo fanno. Con due implicazioni gravi: omissione diagnostica e conseguente mancata cura delle cause di quel dolore invalidante; e uso di un sintomatico dalle pessime implicazioni per la salute, quali sono gli oppiacei, sia per il rischio di dipendenza e seria sindrome da astinenza, sia per gli effetti nefasti sul cervello. Pensiamoci: il dolore non diagnosticato divora la vita.

*Ginecologa, Oncologa e Psicoterapeuta in Sessuologia. Presidente della Fondazione Alessandra Graziottin per la cura del dolore nella donna Onlus

www.fondazionegraziottin.org