Per molto tempo la vulvodinia è stata un dolore senza nome, difficile da raccontare e spesso messo in dubbio. Oggi se ne parla di più, ma il riconoscimento medico non basta sempre a restituire senso e ascolto a un’esperienza che coinvolge il corpo, la psiche e l’intimità più profonda delle donne che ne soffrono.

In questa intervista, la psicanalista Grazia Aloi ci accompagna in una riflessione che va oltre le etichette diagnostiche, riportando l’attenzione sul vissuto soggettivo delle pazienti e sul tempo necessario perché il dolore possa essere raccontato. Dalla terapia emerge una visione della vulvodinia come esperienza complessa, che non può essere ridotta a un’unica causa né spiegata con facili collegamenti tra trauma e sintomo. Corpo e psiche dialogano, ma sempre secondo modalità individuali, che chiedono rispetto, ascolto e competenza.
Oggi si parla sempre di più di vulvodinia. Ma fino a qualche anno fa le donne non venivano credute e la patologia non veniva riconosciuta dalla medicina. Come è cambiata la narrazione delle donne in seduta? C’è un prima e un dopo?
Nella mia pratica clinica no, non c’è un prima e un dopo se non nell’avere un nome intellegibile della sindrome.
Se di tempi di narrazione si vuol parlare, prima e il dopo sono – sempre e comunque – legati al tempo giusto, al kairos che ci hanno lasciato detto i Greci. Il tempo giusto, il tempo di quando la paziente è pronta per parlare di “quella cosa lì” anche se è venuta in analisi proprio per quella cosa lì. Ci vuole il suo tempo, che non è legato al riconoscimento della sindrome vulvodinia, al di là del prima o del dopo.
Parlare di vulvodinia con le pazienti è avere rispetto della corretta informazione, rispetto per il diritto alla conoscenza della verità e se la comunità scientifica da anni chiama vulvodinia tutto quell’insieme di sintomi, allora tutte e tutti così la chiamiamo.
Sulla questione che le donne non fossero credute, non so che dire. È auspicabile che un medico riconosca patologici sintomi e segni – che per definizione “stanno per qualcos’altro”- anche se invisibili, ossia senza evidenza concreta. Si escluda la ginecologia che, invece, l’osservazione clinica ha modo di vederla e di valutarla, indipendentemente da nosografia e nosologia. Medico è colui che opera in scienza e coscienza e si spera che almeno una delle due… sia presente.
Psicoterapia o psicanalisi: quale può essere più utile in caso di dolore pelvico cronico? Come scegliere la terapia “giusta”?
Non c’è terapia “giusta”, o per lo meno c’è se si tiene conto che la psicoanalisi è pur sempre una terapia, così come lo è una psicoterapia psicodinamica che però utilizzano modi e mezzi differenti rispetto ad una psicoterapia cognitivo comportamentale. Il discernimento di questa o quella giusta per il dolore pelvico cronico segue tutta la ratio che sottintende sempre la proposta terapeutica ed anche l’eventuale invio a colleghi con formazioni concettuali differenti dalla propria. Non è la vulvodinia che fa ritenere utile questa o quella, ma la persona che ne soffre e le sue capacità più o meno introspettive, con tutto il suo significato.
Nella sua esperienza, la vulvodinia è collegata e in che misura a eventi stressanti, conflitti o traumi pregressi?
Nella mia esperienza clinica, da psicoanalista non anacronisticamente legata ai tempi che furono ma aggiornata alle ermeneutiche ideologiche e concettuali dei pensatori del nostro tempo, posso dire che nella vita di chiunque c’è ben poco che non sia stressante, conflittuale o traumatico, pregresso o recente. La vulvodinia è sindrome, ossia più cose messe insieme che procurano dolore sia fisico che psichico e dunque…. ci siamo. In che misura? Nella misura in cui la donna ha subito, subisce e mentalizza. Ma non tutte le donne mentalizzano allo stesso modo e sono tanti gli elementi soggettivi psicologici.
Se esiste un collegamento tra corpo/sintomo e psiche, che cosa il corpo sta cercando di dire attraverso il dolore cronico e invalidante in quest’area così intima?
Che sta soffrendo “intimamente”. E da lì che occorre partire se si vuole capire stress, conflitto e trauma e loro significati percettivi. E, facendo un po’ un insieme delle domande, non c’è analista/terapeuta/medico che possa permettersi di non credere alla sua paziente, che si possa permettere timing errati portatori di drop-out (interruzione precoce del trattamento ndr), che si possa permettere di “violare” il tempo dell’intimità soggettiva.
Come lavora in terapia per ristabilire un rapporto positivo tra la paziente e il suo corpo, in particolare una parte che è diventata nemica e fonte di grande sofferenza?
Perché nemica? La fonte di grande sofferenza è altrettanto fonte di tanto, soprattutto di parole che non sanno “uscire” ed è opera del terapeuta utilizzare l’arte maieutica.
Quali emozioni ha riscontrato più spesso nelle pazienti con vulvodinia?
Quelle legate al dolore, forse un po’ più legate alla capacità soggettiva di sopportabilità, ma mai vergogna, senso di colpa o di inadeguatezza legate alla sofferenza per la patologia, così tout-court.
Quali sono le sfide più comuni che emergono nella coppia e come la psicoterapia può aiutare entrambi i partner ad elaborare la frustrazione, la paura e il senso di colpa?
La domanda presuppone che io sia d’accordo su frustrazione, senso di colpa , ma non lo sono. La coppia è dispiaciuta e si aiuta a vicenda, se va d’accordo e se c’è un sentimento solido, se c’è fiducia e progettualità. Altrimenti, possono esserci dinamiche sottostanti per le quali è necessario aiutare la coppia a riconoscere e a desiderare di superare.
Dopodiché si potrà parlare degli inevitabili problemi che la patologia comporta per la sessualità. Questo è il processo che porgo come possibilità terapeutica, che è certamente una sfida e non da poco tra loro due e per loro stessi. Qua sì che c’è un prima e un dopo: prima si cerca di capire che cosa la coppia abbia voglia di risolvere, ossia la patologia che è sintomatica e talvolta funzionale quella e solo quella, oppure se la coppia voglia coraggiosamente affrontare la sfida.
Come si valuta il successo del trattamento in un contesto in cui il sintomo fisico è così centrale?
Banalmente, quando non la sofferenza è passata oppure quando si possiederanno gli elementi per gestita.