La storia di Silvia

Silvia, 30 anni

C’è la luce in fondo al tunnel della vulvodinia. Ma i momenti di buio sono lunghi e dolorosi. Soprattutto se, come nel caso di Silvia, servono otto anni semplicemente per arrivare a una diagnosi.

Una domanda classica: quando e come è cominciato il tutto?

Avevo 17 anni e una vita normale. Avevo fatto una prima visita ginecologica che aveva riscontrato una condizione di completa normalità. Poi è arrivato il primo rapporto e insieme la prima cistite che ovviamente era facile liquidare come “cistite da rapporto” e curare con le classiche terapie farmacologiche.

Ma la situazione, immaginiamo, non migliorava.

Al contrario peggiorava. Le cistiti, oltre ad essere ricorrenti, erano diventate sanguinanti. Il bruciore si presentava non più solo a seguito dei rapporti ma potrei dire che fosse praticamente costante. La condizione era sempre più difficile, sotto tutti i punti di vista: proprio per colpa di questo quadro così complesso e di tutto quanto comportava dal punto di vista fisico e psicologico, mi era impossibile portare avanti una relazione sentimentale.

Di fronte a questa condizione come si ponevano i ginecologi?

Va da sé che con l’intensificarsi dei disturbi le visite si moltiplicavano. Ed erano loro stesse fonte di sofferenza dal momento che ogni volta che mi sottoponevo al Pap Test svenivo per il dolore. “Perché è troppo agitata”, mi continuavano a ripetere i medici.

Nessuno quindi parlava di vulvodinia?

Assolutamente no. Chi mi diceva che tutto il problema stava nella mia testa, chi arrivava a definirmi pazza. Di fronte a questa situazione ho cominciato a navigare in Internet e lì ho trovato la magica parola “vulvodinia”. Sono andata dalla ginecologa che in quel momento mi stava seguendo che per prima mi ha confermato che ero affetta da vulvodinia. Ero felice per il solo fatto di essere giunta dopo otto anni alla diagnosi. Ma una felicità durata un attimo visto che, sempre secondo la ginecologa, non c’era cura al problema: o provavo con l’omeopatia o con la terapia del dolore. Null’altro.

E tu Silvia non ti sei arresa…

Ho preso appuntamento con un’altra ginecologa trovata sempre su Internet che ha confermato la diagnosi di severa vulvodinia con clitoralgia generalizzata. In effetti la situazione era peggiorata notevolmente: il bruciore era costante, indossare i pantaloni impossibile e persino il contatto con gli slip era intollerabile. La ginecologa mi ha prescritto il classico protocollo di cure farmacologiche, mi ha consigliato sedute di Tens ma tutto senza il ben che minimo risultato. Sono arrivata al punto di non poter camminare: ho fatto un intero anno a letto, spostata a braccia oppure in carrozzina semplicemente per andare in bagno. E cinque lunghissimi anni praticamente reclusa in casa.

Come proseguiva nel frattempo il discorso delle cure?

Un nuovo ginecologo al quale mi ero rivolta ha aumentato il dosaggio dei farmaci a cui affiancare l’elettroporazione. Ma anche in questo in caso non avevo nessun miglioramento al punto che il ginecologo un giorno mi ha liquidata con un “non so cosa fare con te e quindi..” Avevano persino ipotizzato per il mio caso l’alcolizzazione del nervo pudendo, una procedura di desensibilizzazione che avrei dovuto eseguire all’estero non essendo praticata in Italia.

È comprensibile lo sconforto. Come hai reagito?

Sconforto sì, ma non la resa. Un’altra ginecologa ha proseguito sulla strada farmacologica finché mi sono rivolta a un professionista che si occupa di biomeccanica, potrei dire forse il primo che ha deciso di capire quale fosse la ragione dei miei problemi. Dico nel mio caso perché quando si parla di vulvodinia è importante, secondo me, sottolineare sempre che ogni donna ha una storia a sé e ognuna va affrontata nel modo più opportuno.

In questo sta la difficoltà: le donne che soffrono di vulvodinia hanno spesso, proprio come me, una storia complessa: arrivano quindi dagli specialisti con cartelle cliniche voluminose e dense di referti e prescrizioni che vanno esaminati con tempo e pazienza dal momento che costituiscono la storia e la “carta d’identità” della paziente. Si dovrebbe partire da lì, ma difficilmente lo studio della cartella clinica viene fatto con puntualità.

Siamo alla fine del racconto…

Proprio così. Perché grazie all’ultimo specialista a cui sono mi sono rivolta è stato possibile capire che tre denti del giudizio ancora inclusi, attraverso un meccanismo complesso, arrivavano a provocare la condizione dolorosa che stavo attraversando ormai da anni. Ho tolto i denti, mi sono sottoposta a un ciclo di manipolazioni, ho sospeso i farmaci e nell’arco di un anno sono praticamente rinata.

Sto studiando psicologia perché voglio che il mio futuro lavoro possa rappresentare un supporto per le donne che come me si trovano ad affrontare questo disturbo dall’impatto così drammatico sulla vita quotidiana. E che proprio per questo meriterebbe di essere riconosciuto dallo Stato come malattia invalidante.